Il viaggio in Terrasanta di Scotto e Speranza
Dal 7 ottobre 2023 è cambiato tutto in Israele e Palestina. Sappiamo che non siamo di fronte ad una crisi passeggera e sappiamo, perché lo leggiamo ogni giorno sui giornali, che l’evoluzione della guerra è drammatica da tanti punti di vista. Arturo Scotto e Roberto Speranza, parlamentari del Pd, sono in Terrasanta per incontrare, parlare e cercare di aiutare.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Arturo Scotto per sapere come sta andando il loro viaggio.
Lei e l’onorevole Speranza siete in missione nei luoghi di questo disastro: perché avete sentito la necessità di andare lì di persona?
Perché pensiamo che la diplomazia dal basso possa aiutare molto a far discutere le parti, proprio ora che tutti i canali sono chiusi, e ad aiutare l’opinione pubblica italiana a capire le ragioni di questa tragedia, provando a stare un po’ meno della superficie. Siamo stati tante volte in Medio Oriente, fin dalla gioventù: abbiamo sempre pensato che dalla risoluzione di questo conflitto passi larga parte della possibilità di un mondo stabile e in pace. Questa guerra attraversa anche le società europee e occidentali, ne accentua le contraddizioni alimentando e risvegliando odi antichi e paure moderne. Non si può immaginare che la soluzione sia militare. E’ tutta politica. Due popoli, due stati è la formula a cui rimanere disperatamente attaccati. Perché è la strada giusta, nonostante sembri una evocazione astratta. E persino ingenua se vediamo la crescita degli insediamenti illegali, la durata dell’occupazione in barba alle risoluzioni delle Nazioni Unite e l’indebolimento dell’Autorità nazionale palestinese. Ma il dato di fondo è uno: uno Stato c’è oggi. Israele è ferita, divisa politicamente più di quanto appaia, spaventata dalla barbarie del 7 ottobre. Eppure esiste e gli va garantita sicurezza. L’altro non c’è ancora. E bisogna che venga riconosciuto.
Stiamo seguendo il vostro viaggio anche attraverso il sito www.compagnoilmondo.it, avete incontrato volontari, cooperanti italiani e tanti testimoni di pace: che cosa chiedono e che come vedono l’impegno dell’Italia e dell’Europa per fermare la guerra?
L’Italia ha una lunghissima tradizione di presenza attiva in Palestina, in West Bank come a Gaza, di cooperazione allo sviluppo. Quella tradizione oggi rischia di essere smantellata. Il Governo italiano ha tagliato i fondi. Nel 2021 la cooperazione riceveva 15 milioni per i progetti di sviluppo ( dall’educazione alla salute, dall’agricoltura alla cura dei bambini all’implementazione delle piccole imprese ) a fronte di 5,2 milioni per l’emergenza umanitaria, nel 2022 16,3 milioni a fronte di 3,6. Nel 2023 solo 11 milioni: tutti sull’emergenza umanitaria e niente allo sviluppo. Un segnale inequivocabile di disinteresse. Sono stati congelati dieci progetti: cinque da Gaza e cinque dalla West Bank. Facciamo appello a Tajani perché si cambi strada e si ripristini l’agibilità piena per le nostre ONG, innanzitutto per garantire i pagamenti di chi sta sul campo. Questi sono i primi operatori di pace. E vanno sostenuti. Così come le agenzie dell’Onu. Trovo sconcertante che siano sospesi i contributi nell’anno in corso all’Urnwa. Bisogna sbloccarli.
Leggere sui giornali le notizie è un conto, vedere di persona la sofferenza delle persone, sentire i racconti e raccogliere le preoccupazioni è un’altra cosa: che cosa vi ha colpito di più dell’umanità incontrata?
Una devastazione terribile. Sono bruciati quasi tutti i ponti. L’attentato di Hamas ha spinto larga parte della la società israeliana fuori dalla prospettiva della ripresa del processo di pace. Le immagini che abbiamo visto dal vivo nel kibbutz di Kvar Aza sono il manifesto di cosa sia il terrore, la sua barbarie, la sua dimensione spietata. Le case bruciate e crivellate di colpi, il numero altissimo di ostaggi e la brutalità dei racconti degli omicidi spingono alla vendetta e non alla giustizia. Mentre eravamo lì a un chilometro e mezzo da Gaza c’erano i Jet in volo, l’artiglieria che sparava: come fermarli? Invece il sangue sembra l’unica strada perseguibile. Ne discende la de-umanizzazione delle vittime palestinesi. Sono sotto il fuoco israeliano in quanto vivono a Gaza. Dunque sono naturalmente di Hamas. Questo è fuori dal diritto internazionale. Abbiamo visitato una Betlemme deserta, spettrale, spolpata della naturale vitalità dovuta al flusso costante della presenza di pellegrini. Ci siamo immersi nella città vecchia di Nablus e nel campo dei rifugiati di Balata: le condizioni sono estreme. Senti puzza di morte ad ogni angolo, dove campeggiano le foto dei ragazzi uccisi dall’esercito e raccontati come eroi. Sembra scomparire qualsiasi forma di resistenza all’occupazione non violenta. E’questa la trappola del 7 ottobre. Il messaggio che sembra passare è che non c’è alcuno spazio per la politica. Solo la guerra.
L’Italia, col governo Meloni, si è astenuta all’Onu sul cessate il fuoco a Gaza: si sta lavorando abbastanza per la ripresa di un’iniziativa di pace da parte della comunità internazionale e lei, di ritorno da questo viaggio torna con le idee più chiare su quello che c’è da fare?
I leader palestinesi che abbiamo incontrato, a partire dal primo ministro Shtayyeh, hanno sottolineato la debolezza della posizione italiana in questo conflitto. L’Italia storicamente è stata collocata su una posizione di mediazione tra le parti e di confronto con il mondo arabo. Essersi astenuti sul cessate il fuoco è stato un errore grave: non mettersi dalla parte di chi capisce il dolore di Gaza è davvero inaccettabile non solo sul piano politico ma innanzitutto morale. E non consente di svolgere alcuna funzione di avvicinamento delle parti quando la guerra speriamo presto terminerà. Saremo, temo, ininfluenti rispetto a qualsiasi prospettiva di ripresa dei colloqui di pace. E avendo contribuito a spaccare l’Ue condanniamo anch’essa a non contare nulla in futuro. Una bancarotta politica nel momento in cui servirebbe un grande scatto da parte dell’Europa.