Mettiamo in campo i fondamentali.
La conversione ecologica si affermerà quando sapremo renderla socialmente desiderabile.
Questo pensiero di Alex Langer continua ad interrogare le coscienze di chi si occupa quotidianamente di trasformare il nostro modello di sviluppo da predatorio a generativo, da estrattivo e “di rapina” (come lo ha definito con grande precisione il presidente Mattarella) a sostenibile, giusto e solidale.
Come fare a raccontare una storia di speranza e di respiro, mentre attraversiamo crisi intrecciate (climatica, pandemica, sociale, economica, culturale, energetica, geopolitica, bellica…) che certificano, ove ce ne fosse ancora bisogno, il fallimento di un modello incapace di rispettare i diritti delle persone e dell’ecosistema?
Come mostrare che la conversione ecologica è davvero l’unica via possibile per ridare slancio duraturo alla nostra industria, per rimettere in movimento l’ascensore sociale del Paese, per ridistribuire risorse e costruire davvero salubrità e sicurezza in un momento in cui l’ecologismo è divenuto il nuovo nemico?
Si è appena conclusa la più discussa delle Conferenze internazionali sul clima, quella COP28 di Dubai che, apertasi fra mille polemiche per il luogo, la scelta, le dichiarazioni e le intenzioni del presidente Al-Jaber, capo della più grande industria petrolifera del Paese, si è chiusa invece con il migliore degli accordi possibile, viste le premesse. Per la prima volta in un documento finale si fa riferimento ai gas fossili e alla necessità della loro uscita, anche se attraverso una transitioning away (l’allontanamento graduale dall’uso dei combustibili fossili per arrivare allo zero netto entro il 2050, si legge nel documento) invece del più netto phase out (l’eliminazione progressiva dei combustibili fossili, gas compreso), respinto in prima stesura. Si era aperta con una prima, tiepida, notizia positiva: il finanziamento promesso dai primi Paesi del fondo “Loss and Damage”, istituito lo scorso anno.
Un segnale che non è servito come arma di distrazione di massa per distogliere l’attenzione dal vero, importante, obiettivo: una chiara scelta di campo rispetto al phase out. Quello che è evidente, oltre la guerra delle parole – che, lo abbiamo imparato, sono importanti – è che il mondo sta andando comunque nella direzione dell’uscita dai combustibili fossili, malgrado la presenza di migliaia di lobbisti delle compagnie gas&oil, malgrado i colpi di coda dei grandi Paesi produttori, la sensazione è forte, la direzione è data. E ancora vale la pena ricordare che, con tutte le sue ataviche lentezze, le conferenze sul clima restano teatro solido di multilateralismo, in cui tutti parlano con tutti, ed è una buona notizia che neanche il tentativo di cancellazione del termine phaseout può arrestare.
I motivi per cui essere preoccupati e in allerta sono molti, è inutile negarlo. Il Green Deal europeo è sotto attacco come mai prima, abbiamo una destra negazionista e novecentesca al governo, che non si apre al confronto con la società organizzata e non ascolta il parlamento in nessuna forma. Il prodotto di questa contingenza è la stesura di un pessimo PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima): quello che avrebbe dovuto essere il piano economico, industriale e sociale per il futuro del Paese sulla strada della decarbonizzazione, sembra invece un compitino mal fatto, privo della dovuta ambizione, dei necessari strumenti di pianificazione e monitoraggio.
Un piano miope e ancora legato a doppia e tripla mandata all’idea di un’Italia hub del gas, invece che motore mediterraneo delle fonti rinnovabili, che non si fa strumento attivo per sbloccare le normative impantanate, né per rendere armonizzati e efficaci strumenti che dovrebbero remare nella stessa direzione, come PNRR, decreto aree idonee e decreto “FERX” (dedicato all’incentivazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili non ancora maturi dal punto di vista industriale). Un piano che dovrebbe chiaramente indicare come predisporre semplificazioni autorizzative che velocizzino le soluzioni più codificate e meno impattanti, rassicurando gli investitori e stabilizzando gli indotti.
Si continua a considerare la transizione energetica alla stregua di un accessorio, mal tollerato, al vero piano energetico, quello fossile, appunto: va detto invece, forte e chiaro, che gli investimenti in infrastrutture energetiche che si mettono in campo oggi, alle soglie del 2024, non possono causare un lock-in, un rafforzamento della dipendenza da gas per i prossimi decenni, ma, al contrario, devono essere focalizzati all’uscita da tale dipendenza. Una trasformazione sistemica che va gestita in maniera ordinata e ragionata, accompagnando imprese e cittadini con i giusti strumenti di sostegno e supporto, il prima possibile.
Tra questi strumenti è fondamentale che si lavori su una strategia industriale a medio e lungo termine, finalizzata alla costruzione di filiere produttive ad alto valore aggiunto.
È fondamentale che si mettano in campo tanto strumenti di pianificazione territoriale integrata, con un importante ruolo delle Regioni, quanto sistemi innovativi di partecipazione, formazione e informazione rivolti alla popolazione, al fine di mettere tutti in condizione di saper discernere gli impianti e le infrastrutture necessarie e urgenti, da quelle da respingere con determinazione, evitando il radicarsi di fenomeni NIMBY che spesso, per comprensibile timore, si scagliano anche contro progetti necessari.
Per raggiungere questo obiettivo è cruciale respingere la narrazione tossica che vede l’ecologismo relegato ad una questione di élite, puntando chiaramente su misure che invece siano strutturate proprio per essere leve di contrasto alle diseguaglianze, motore di coesione sociale. Fondamentale, in tal senso, è partire da un grande piano nazionale per la rigenerazione urbana delle periferie, con focus specifico nella riqualificazione energetica dell’edilizia pubblica (unico strumento duraturo per contrastare la povertà energetica).
È fondamentale fornire supporto strutturato alle imprese e ai consumatori per affrontare la sola trasformazione, nell’ottica strategica dell’economia circolare, che ne garantirà lo sviluppo e il potere di acquisto a medio e lungo termine.
È fondamentale rivedere completamente il sistema di trasporto e mobilità, con importanti investimenti che rendano l’auto privata l’ultimo miglio di una trasformazione profonda, improntata al potenziamento tanto delle ferrovie regionali quanto del trasporto pubblico locale nelle città (che può essere reso gratuito per i giovani e gli studenti), spingendo su accessibilità, efficientamento ed elettrificazione.
Occorre dotare finalmente il Paese di una legge contro il consumo di suolo e costruire strategie di promozione attiva della natura, del suolo e dell’ecosistema, nel solco dei principi di protezione attiva indicati dal pacchetto del “restoration nature EU”, unica via per far fronte all’ormai sistemica siccità a cui i territori vanno incontro, con crescente gravità, ogni anno.
In tale solco, come per il PNIEC, è fondamentale che il piano di adattamento del territorio agli effetti della crisi climatica venga reso più ambizioso e che sia adeguatamente finanziato.
Perché è ormai sempre più evidente, spesso drammaticamente, quanto investire in prevenzione sia immensamente più sensato ed economico di rincorrere i danni, spesso irreversibili.
A fronte di una crisi sistemica, nel solco scavato dai principi dell’agenda2030 delle Nazioni Unite, abbiamo tutti gli elementi che servono per costruire nuovi binari e riprendere a muoverci ispirati dai principi di giustizia, equità, solidarietà, cura, rispetto e tutela delle generazioni future.
Non possiamo più attendere o temporeggiare. Il momento di agire è questo.
di Annalisa Corrado